MARY WAGNER

Liberata lo scorso 25 luglio dopo sette mesi di galera, l’attivista canadese promette che continuerà a recarsi nelle cliniche per dissuadere le madri tentate dall’aborto
(ZENIT)

Almeno in Canada, promuovere coi fatti una cultura a favore della vita può costare la galera. Lo insegna la vicenda di Mary Wagner, quarantunenne rilasciata il 25 luglio scorso dopo aver passato sette mesi dietro le sbarre del carcere di Toronto.

Il sorriso non sembra abdicare il volto pulito di questa attivista pro-life, che ormai non si lascia nemmeno più turbare tanto dall’esperienza carceraria. Si tratta infatti della sesta volta che viene arrestata, sempre per gli stessi motivi. Le manette però non la preoccupano, convinta com’è che sia un obbligo morale proseguire una battaglia contro una legislazione sull’interruzione di gravidanza che in Canada è tra le più permissive al mondo.

“Certo, sono contenta di essere stata rilasciata”, dichiara la Wagner a Life Site News in un’intervista telefonica concessa in un momento di pausa dalla lettura dalle numerose lettere di incoraggiamento che le sono state inviate durante la detenzione. “Sono grata per le preghiere e il sostegno”, dice puntando gli occhi sulle righe che le sono state dedicate e di cui è venuta a conoscenza soltanto una volta uscita, visto il divieto delle autorità carcerarie a farle pervenire lettere e doni dall’esterno.

L’attivista, che in totale ha passato in carcere circa 4 anni di vita, era stata arrestata il 23 dicembre scorso davanti a una clinica di Toronto in cui vengono praticati gli aborti. Il “crimine” commesso dalla Wagner è stato quello di pregare pubblicamente e di avvicinare le donne intenzionate ad abortire per cercare di dissuaderle. In che modo? Cercando di parlare con loro e lasciando ad ognuna di esse, come simbolo dei bambini non nati, una rosa rossa.

Troppo, per il giudice Mavin Wong della Corte di Giustizia dell’Ontario. Con l’accusa di disobbedienza e di violazione dello “spazio di protezione” della clinica, la toga ha condannato Mary Wagner a dieci mesi di reclusione, a una sanzione economica e al divieto di avvicinarsi alle cliniche abortiste. E lei, in segno di solidarietà con le vittime dell’aborto, ha rifiutato di difendersi durante il processo esibendosi in una coraggiosa scena muta e non assumendo un avvocato in sua difesa.

“Armata di rose rosse e di biglietti da visita”, la Wagner è stata accusata dal giudice di “interferenza nella conduzione delle procedure mediche”. Una addetta della clinica, che nel processo ha testimoniato contro l’imputata, ha raccontato che una donna, avvicinata in sala d’aspetto dalla Wagner che ha provato a mostrarle argomentazioni contro l’aborto, è scoppiata in lacrime. Di qui la scelta del personale della clinica di chiamare la polizia.

La combattiva attivista promette però di non demordere, anche a costo di essere nuovamente arrestata. La prima volta che finì in galera fu nel 2000 e l’esperienza carceraria negli anni ha finito per temprarla. La Wagner ha invitato le persone a “non concentrarsi su di me e sulle mie difficoltà” ma, come ha scritto in una lettera di sostegno nei confronti degli attivisti pro-life lo scorso marzo, di pensare “alle tante mamme che finiscono in questi luoghi dove i figli vengono brutalmente uccisi”.

L’attività della Wagner non si limita nei confronti delle gestanti tentate dall’interruzione di gravidanza, le sue attenzioni si rivolgono infatti anche verso quante vivono i traumi post-aborto. In carcere ha svolto lavoro di supporto e di consulenza a favore di quante provengono da esperienze di questo tipo. “Pensiamo a queste madri e ai loro neonati, preghiamo per loro, e per quanto possibile, cerchiamo di esser lì con loro, come vorremmo esser lì per i nostri figli, madri, padri, sorelle, fratelli o amici”, ha scritto nella lettera inviata dal carcere.

Nello stesso testo, la Wagner ha esortato i cristiani a lottare per la costruzione di ciò che Giovanni Paolo II chiamava “una civiltà della vita e dell’amore”. Lotta che, come la sua storia insegna, può anche costare il sacrificio della propria libertà.