Un giocatore su quattro è patologico o a rischio. E l’ignoranza sui pericoli dell’azzardo è dilagante, assieme alla cattiva coscienza di chi gioca pur sapendo che è rischioso. Sono dati allarmanti quelli che emergono da «Il vissuto del gioco», studio pilota sui comportamenti – patologici e non – degli scommettitori, primo dossier del neonato Osservatorio di marketing sociale, promosso dall’Università di Parma e da Sita Ricerca.

Lo studio – che Avvenire può anticipare – traccia un quadro a tinte più fosche di quanto finora noto. La percentuale dei giocatori «molto problematici», ad esempio, è pari al 13,8% di chi gioca, mentre finora diverse analisi indicavano una stima tra l’1 e il 2%. Lo studio utilizza il parametro usato per misurare la tendenza alla compulsione del giocatore: assegnando un punteggio alle diverse domande poste dalle interviste a 500 giocatori, si arriva a un risultato che definisce il livello di problematicità. E quindi se il 50% di chi gioca è a «rischio zero» e il 24% è costituito da giocatori «poco problematici», c’è un 12,2 «moderatamente problematico» e un 13,8 – come già detto – «molto problematico». Due categorie che sommate arrivano al 26%. Uno ogni quattro.

Il dato non meraviglia chi scorre le risposte ai quesiti. Ignoranza, luoghi comuni e illusioni sono il bagaglio culturale della maggior parte dei giocatori: «Spero di diventare ricco» e «cerco di guadagnare denaro per integrare il mio reddito» sono convinzioni diffusissime. Il brivido del gioco è un demone potente: molti si riconoscono nelle definizioni «mi piace la soddisfazione che provo quando vinco» e «giocare mi emoziona». Quasi un giocatore su due, poi, il 46,7%, non sa cos’è il gioco d’azzardo: il 29,9 crede che è solo «il gioco con posta alta», il 16,8 «quello non autorizzato dallo Stato».

E chi gioca spesso perde il contatto con la realtà: le affermazioni più gettonate sono «la conoscenza delle regole aumenta la probabilità di vincere», «segnali precisi mi suggeriscono se è meglio continuare o no», «perdo perché la “dea bendata” mi volge le spalle» e perfino «L’aiuto del “cielo” è importante per vincere».

Preoccupanti le risposte sulla “cattiva coscienza” del giocatore: il 36,8% torna a giocare l’indomani per rivincere i soldi persi. Un dato che comprende quel 28,7 che lo fa «qualche volta», il 5,5 «spesso», il 2,7 «sempre». Percentuale più contenuta, ma ancora più allarmante, il 14,9% che – qualche volta, spesso o sempre – ha «preso soldi in prestito» o «venduto qualcosa» per giocare.

C’è poi quel 18% circa che a – volte o spesso – «ha avuto la sensazione di avere un problema col gioco», avverte «problemi di salute come stress o ansia», è stato messo in guardia sul rischio. Il 16,4 che ha avuto «problemi finanziari. Non meraviglia allora che – qualche volta, spesso o sempre – il 23,3% dei giocatori «si sente in colpa».

Tra i giocatori è comunque diffusa anche la coscienza sull’invasività dell’azzardo in Italia. In molti concordano sul fatto che «ci sono troppe opportunità per giocare», «l’azzardo andrebbe scoraggiato», «è stupido», «dannoso per la vita familiare», «una perdita di tempo» e perfino «è come una droga».

I giocatori raccontano di somme importanti bruciate dal 34,6%: il 19 gioca tra i 25 e i 49 euro a settimana, il 10 tra i 50 e i 99, il 5,6 addirittura oltre 100. D’altronde un 34,2% si avvicina alle scommesse senza porsi limiti: un 26,4 stabilisce una cifra massima per giocata (ma senza limiti temporali), un 7,8 non si pone alcun tetto di spesa. Il 18% del campione, inoltre, è arrivato a spendere in un solo giorno cifre che oscillano tra i 51 e i 1.000 euro. Allarma infine l’attrazione del fenomeno sui giovani: l’8,8% ha cominciato da minore, il 41 tra i 18 e i 24 anni.

Beatrice Luceri, docente di economia e gestione delle imprese, spiega che «l’Università di Parma sta investendo sul marketing sociale, per creare un laboratorio in cui far convergere competenze di economia, psicologia, medicina, grazie anche ai colleghi Gianpiero Lugli e Tania Vergura. Analizzeremo anche temi quali l’obesità o il fumo, ma il gioco è in cima alla nostra agenda di lavoro». «L’obiettivo – dice Paolo Zani, ricercatore di Sita Ricerca – è quello di spostare l’attenzione dalla classifica dei giochi più o meno diffusi, su cui finora si è concentrata la ricerca, al comportamento.

Le indagini sull’argomento – spiega l’esperto – finora non hanno avuto continuità e omogeneità che le rendano confrontabili. Di fatto non forniscono dati utili a studiare la degenerazione del fenomeno». Ancora sottostimato, come dimostra questo dossier.

Luca Liverani